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Sono diventato un uomo

Gli anni sono poi passati e sono diventato un uomo, frequento L' I T I S     " Luigi di Savoia " a Chieti e ho due inseparabili amici : Faieta Mario e Di Medio Gianfranco, due menti eccelse che ben si amalgamo col mio spirito ribelle .

 

Questa è la piazzetta prima del Pozzo dove si "curvava"


 

"Noi apparteniamo a una generazione che ha avuto la fortuna di veder messi in discussione tutti i valori del mondo"....soleva ripetere Mario Faieta. Sembrerà, a riferirla, una frase grossa, una frase fatta. Ma allora, e in bocca a lui, per noi non lo era. Mario aveva creato un gruppo di lavoro doposcolastico, che su progetto di Di Medio era adibito alla  costruzione di una barca in vetroresina, aveva per noi  la decisione e il prestigio d’un capo. Ma anche gli altri amici del nostro gruppo non erano da meno. Ammiravo la loro energia e il loro bisogno di non sentirsi soli. Si aveva l’impressione che quel che pensavano non avrebbe avuto, per essi, alcun valore, se non avessero potuto condividerlo con gli altri. E a me tutto ciò suonava nuovo, io che ne ero stato sempre geloso e avevo sempre ritenuto che la cultura fosse un acquisto e un privilegio individuale. Si aveva anche l’impressione che non avrebbero saputo che farsene, se non l’avessero considerato una premessa alla lotta e una guida alla scelta dei mezzi. E anche questo mi suonava nuovo, io che avevo sempre creduto che le idee fossero fatte unicamente per ragionarci. Scoprirli, rendermi conto del loro modo di pensare fu un po’ la mia grande evasione, l’unica realmente possibile a un temperamento come il mio, con una preparazione come la mia e la mia tendenza a trasformare in cultura tutto ciò che mi veniva dall’esperienza. Era ciò, soprattutto, che i miei amici mi rimproveravano: a loro accadeva il contrario. E questo mi sorprendeva. C’era all’incirca, tra me e loro, la differenza che passa tra chi vuol solo capire e chi vuol solo convincere. C’era in me l’orrore del perentorio, il gusto delle sfumature, in loro il semplicismo e l'esclusivismo degli autodidatti. Tanto più, al cospetto della loro, la mia logica era priva di mordente. Ma m’ostinavo e discutevo. Li cercavo per discutere, stavamo insieme per ore a conversare e contrastare: in un caffè, in un’osteria, sulla spalletta d’un ponte, camminando incessantemente lungo il corso Marruccino, giù giù fino al laghetto col Tritone, nella villa Comunale a Chieti, su e giù senza mai fermarci per ore e ore senza accorgerci che il tempo passava.. Al caffè, se alzavamo appena un po’ la voce, ci guardavano con sospetto. Ne ridevamo, senza malizia, nella gioia di bastare a noi stessi. Nelle osterie sedevamo in compagnia degli operai. M’accorgevo di non riuscire a parlare il loro linguaggio, anche se io ero figlio di uno di loro, e questo fatto m’intimidiva e in pari tempo m’inebriava come se m’avventurassi in regioni inesplorate. Ricordo ancora con una stretta certe notti d’estate trascorse passeggiando e chiacchierando senza mai stancarci lungo la strada di circonvallazione, coi tetti della città pieni di luna e il Gran Sasso sospeso in una luce azzurrognola. Dalla città, a quell’ora, non veniva una sola voce. Si distinguevano le luci della valle della Pescara su su fino alla Brecciarola e tendendo l'orecchio si sentiva lo sferragliare del treno ad una distanza di chilometri rimbombante nella valle o lo sgocciolio della fontanella dove scendevamo quando avevamo sete, il rumore sordo del mulino di Femminella , quello basso e pulsante delle trebbie che continuavano il lavoro sulle aie, e dappertutto, in distanza, disperso, l’abbaiare dei cani. Io discutevo ed ero felice. Ero felice avevo 15 anni.

Questo è il  laghetto in fondo alla villa comunale


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